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lunedì 8 agosto 2011


"Neve e faine" o della poesia didattica di Franco Fortini


Saggio di Erminia Passannanti


“Il lettore intravede un ordine nel testo ma è solo una possibilità, un appello ad una umanità che chiede al lettore l’incarnazione reale.” (“Arte e proletariato”, 1951)


Se è vero che la poesia lirica assolve, in primis, la funzione di dare espressione ad opinioni, sentimenti o stati mentali che chiedono con forza di esternarsi, tale funzione diventa particolarmente sintomatica quando a rappresentarla è uno scrittore come Fortini, che ha dedicato la sua intera opera alla comunicazione di valori civili e culturali profondamente difesi, nella prospettiva mai rinunciata di un rapporto diretto, e quasi intimo, con i suoi interlocutori. Autore di poesie a carattere allegorico, Fortini ha mostrato una forte intenzione dialogica sia nei suoi scritti poetici, sia nella saggistica – e certo molti critici convengono su questo aspetto della sua opera – avendo egli temperamento dialettico, unito ad una vitale inclinazione pedagogica, tanto energica da indurlo costantemente a riflettere e teorizzare sui problemi ed i modi della ricezione del testo letterario: poesia come proposta di scambio, poesia come idea comunicabile oltre i codici e i sottocodici del suo tecnoletto, e proprio in ragione di questo, anche poesia come errore e malinteso, come chiarisce senza mezzi termini il titolo della raccolta del 1959, Poesia ed errore. La disposizione poetica di Fortini non va, dunque, disgiunta dalla scrittura saggistica, avendo, la sua poesia, carattere comunicativo e didascalico. [...]
Specie quando impegnati nei media, gli artisti elaboreranno linguaggi e rappresentazioni originali per codificare le loro idee, usando strategie, tecniche e stili persistenti e pervasivi, tali da trasportare più efficacemente il loro messaggio, spesso ignorando, o anche fingendo di ignorare la loro condizione di schiavi della grande macchina dell’industria culturale: ‘A fornire negazioni a basso prezzo ci pensano ormai industria della cultura e nichilismo di massa.’ (Opus Servile, p.12) Abbiano o meno fini positivi e cause giuste da perseguire nella sfera sociale, siano o meno favorevoli le situazioni storico-politiche in cui operano non è il punto in discussione, continuava Fortini, in Opus Servile, ragionando su questioni legate al contesto e all’extratesto entro cui si muove ogni discorso poetico. L’opera assorbe e rispedisce al contesto l’ ‘insieme delle circostanze nelle quali il discorso letterario si dà’, come insieme di forze, pressioni, indici e vettori che creano la storia della sua ricezione:

'I rapporti di potere e di dominio hanno […] una relazione non soltanto simbolica ed allegoria con le funzioni del linguaggio. […] La storia dei sentimenti e dei pensieri si specchia in quella dei rapporti interumani determinati dai conflitti per la sopravvivenza come pure dai fantasmi che ci abitano, e cioè dall’inconscio storico e finalmente dall’universo dei bisogni e della economia politica.'


Citando Bertold Brecht, Fortini ricordava che la vita è intreccio di prosa e poesia, snodo di problematiche concettuali ed estetiche, che si riversano nel linguaggio, nelle figure del discorso, nel ritmo, a creare il lessico ‘secco e ignobile’ dell’‘economia dialettica’, dove interamente si riflette ‘il rapporto tra arte e forme di dominio’. (p. 15) Nel saggio ‘Leggendo Spitzer’, in Verifica dei poteri (1965), Fortini rifletteva su tali dialettiche egemoniche in relazione a questioni etiche legate alla produzione e diffusione di un’opera d’arte:


'L’opera d’arte non si risolve in critica. Non si media con il pensiero storico e filosofico. Quel che ha da essere, lo è direttamente: educando a rilevare e ordinare il mondo secondo moduli suoi propri, con una continua ‘proposta di essere’ che chiama la trasformazione. L’opera di poesia ci sta di fronte. Apparentemente, essa non chiede nulla […] si può aggiungere che l’opera d’arte appare carica di energia potenziale e non attuale proprio perché unisce l’apparente casualità di un oggetto di natura con la latente violenza d’una intenzionalità umana.'


Il testo poetico gode, per questo motivo, il privilegio di un ambito d’autonomia espressiva suo proprio, che rimane legittimo, pur nella sua plausibile impenetrabilità: ‘Il verbo al presente mi permette di scomparire. / Il fattorino non vede più dove sono scomparso.’ La poesia comunica attraverso altri canali che quelli argomentativi e speculativi della critica, della storia e della filosofia, ovvero attraverso la cultura, la tradizione, i codici e sottocodici propri del suo genere, codici che il poeta presume il lettore sappia riconoscere e in qualche misura, condividere.

La responsabilità del poeta, come artista consapevole delle esigenze della forma, ha due scopi: tenere vive le sue potenzialità, pur nella generale gratuità dell’atto poetico, e stabilire un rapporto con il lettore, educandolo ad inoltrarsi nell’ambito del genere della poesia e a crescere alla sua percezione e conoscenza. Fortini sottolineava come la poesia viva costantemente l’inganno di darsi come campo ideale, occultando ipocritamente la sua dimensione commerciale, quale oggetto di scambio nell’industria culturale (L’ospite ingrato, 1966).

La questione dell’impegno, d’ispirazione gramsciana, è costantemente presente nell’opera di Fortini come assillo morale. A proposito del rapporto tra parola, emittente e destinatario, immaginando per il poeta un ruolo ipoteticamente mediatore, Fortini, ne L’ospite ingrato (1988), osservava: ‘Essere scrittore significa sapere portare al massimo di coerenza questa diversità, usando il linguaggio, non già essendone usati. Essere poeta significa arrivare a fingere di essere usati dal linguaggio, di essere attraversati come da un dio, di diventare tramite.’ Molte poesie di Fortini, infatti, si presentano come atti comunicativi meticolosamente premeditati, aperti all’interazione con il lettore, per stimolarlo a porsi dinanzi a tracce o ‘segni di percorso’ dove convoglia giudizi, sentimenti, contraddizioni, testimonianze, dubbi, proposte, da cui l’abitudine di Fortini di ricorrere ad espedienti eterogenei di mis en relief.

In Verifica dei Poteri, identificando i limiti della cultura ed i modi della sua verifica, Fortini dava voce alla convinzione dell’opportunità di stabilire un rapporto educativo dialettico con il lettore, credendo fosse compito della letteratura, o meglio sua ‘missione’, non tanto opporsi ai miti di massa, ma ‘educare quella massa medesima’ a discernere tra letteratura come partecipazione a date idee, e letteratura come snobismo al servizio del privilegio borghese ‘che perpetua la ricostituzione di un’ideologia per dirigenti.’ (p.38) La poesia, al contempo, non può avanzare la pretesa di raggiungere la ‘massa’, ma realizzare il suo messaggio nella comunicazione diretta con ciascun individuo tramite la lettura, affinché a contatto con il messaggio poetico, il destinatario assuma la distanza utile ad apprendere e ad esaminare i percorsi di resistenza presentati sulla pagina scritta. Si tratta, evidentemente, di un rapporto di reciproca assunzione di responsabilità. Da professore universitario quale fu, Fortini non poteva che essere convinto che la lettura di un testo letterario o teorico, per quanto oscuro e arduo possa risultare inizialmente, abbia la forza di educare le capacità critiche dei lettori, aiutandoli a discernere il peso ed il senso di un dato messaggio al di là delle sue disarmonie o incoerenze.

L’analisi testuale di una poesia offre all’interprete, in modo insieme celato e manifesto, una visione d’insieme delle condizioni di produzione e circolazione del testo stesso, che isolano i motivi di quel testo dal background socioculturale non sempre terso, che lo legittima. In Opus Servile, tra il mito della ‘libertà’ artistica, e quello del ‘destino’, Fortini notava come il fare poetico, pari ad ogni altra umana attività, si collochi nell’ordine della necessità, avendo il suo ambito di utilità, e dunque schiavitù nei confronti del debito dell’artista verso la società: ‘Di solito, per la tradizione neoplatonica, si associa il poièin alla libertà e il pràttein alla necessità: qui si vuole invece che ogni lavoro, anche quello poetico, sia nell’ordine della necessità e servile, e che neppure gli uccelli cantino in “libertà”.’ (Fortini, Opus servile 1989: 13)

Non c’è, pertanto, contraddizione tra ‘condizione servile’ e ‘status intellettuale’ dell’autore, interprete di se stesso, che svolge anche la funzione di sacerdote e mediatore di valori. La funzione critica, interna all’opera, inoltre, messa al servizio della poesia, aiuta il lettore ad attivare circuiti intellettuali d’argomentazione e senso: ‘Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!’ (Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani, 2000).

Il poeta, come il critico, secondo Fortini, avrà tra i suoi scopi anche quello di incoraggiare una consapevolezza sistematica nel lettore su come i significati vengano ideati, espressi e dunque consegnati al fruitore sulla base della mole di segni, linguaggi e dati a cui siamo quotidianamente esposti; l’engagement letterario, Fortini insisteva, deve ambire ad assolvere la funzione etica di insegnare al lettore non solo ad accostarsi alla poesia per stabilire relazioni con un genere letterario solitamente riservato alle élites, ma ad addentrarsi nel processo di semiosi, partecipando al farsi della scrittura (presso l’interpretante). Tale fine si desume dalla lettura della poesia interpellativa, ‘Neve e faine’, del 1949, pubblicata nel 1959 in Poesia ed errore, in cui è presupposto non uno ma più interlocutori a disquisire sul rapporto uomo-natura, ‘nostro onore somigliare a brute cose’, e sul senso dello scrivere poesia ‘c’è melodia in queste parole?’
Il testo si apre con un’affermazione che il poeta rivolge a se stesso, ai propri ‘giorni futuri’. Sembrerebbe un monologo interiore, ma non lo è che in parte, in quanto, nel penultimo verso, egli interpella il lettore (dei ‘giorni futuri’):

Non incitamento né rimedio né requie
posso su queste cadenze darvi, miei giorni venturi.
Appena la testimonianza, precisa e inascoltata
della frutta che matura, delle trote
che saltano di sasso in sasso verso la neve
e delle foglie che han cominciato a cadere.
A questo gli altri ci hanno ridotti,
nostro onore somigliare a brute cose,
non avere traccia d’uomo. Ma dunque
c’è melodia in queste parole?
Si, ma rotta sul volare del vento.
Dunque un lamento in questi versi udite?
Si, ma delle faine per la campagna.

Fortini, indirettamente, fornisce qui le direttive per acquisire competenza sull’analisi del testo ed i suoi procedimenti; realizza questo scopo non solo mostrando come si crea un’opera di poesia con perizia tecnica, ma anche si comunica e legge con sensibilità artistica nel processo di interpretazione del livello semantico delle immagini che si frappongono alla struttura del testo e del loro messaggio. Tale livello in “Neve e faine” conferisce senso e direzione al livelli fonico-ritmico, lessicale, morfologico, e sintattico. Tutte le scelte espressive di questa poesia, infatti, rimandano ad uno spazio- tempo insieme diacronico e sincronico i cui contenuti si congiungono per precisa parabola ad una densità di riferimenti che attengono al denso intertesto fortiniano, come si dirà più avanti. L’idea della scrittura come percorso di ricerca, che lascia tracce organiche e tracce segniche, volte alla mediazione del vivere e del senso dello scrivere, specie quando diretti al futuro, hanno, nel testo ‘Neve e faine’ carattere montaliano: tutte le funzioni edificanti della poesia – l’esortativa, la consolatoria e l’elegiaca – sono negate, ma solo per promuoverne una verifica dialettica, che contrapponga il noi (emarginato e negativamente connotato come ‘cosa bruta’) agli altri (gli antagonisti, responsabili dell’emarginazione e della connotazione negativa del poeta). Anche in ‘Neve e faine’ si procede per accumulo, sull’esempio della poesia di Montale di Ossi di seppia: foglie che cadono, frutta che matura e trote che saltano verso la neve offrono la loro testimonianza, contribuendo ad una lirica disadorna, snella, senza eccessiva retorica, tranne che quella sulla tensione tra i tropi fortiniani dell’ ordine e del disordine.

Come in molte altre poesie precedenti e successive, anche in ‘Neve e faine’, l’impatto dell’appello al lettore è forte ed immediato: c’è un individuo, il poeta, messo alle corde da un gruppo di altri individui per qualcosa che intende fare o ha fatto, e per la quale intende sporgere denuncia. Nella poesia di Fortini, tutto è ‘fraintendimento’, da risolvere idealmente con il dialogo – anche quando questo sembrerebbe impossibile – per uscire fuori dalle buie relazioni tra uomini e tra le forze negative che inducono sconfitte. La voce poetante con ironica veemenza affronta l’establishment politico-letterario non sempre benevolo verso lo scrittore dissidente ed i suoi strumenti. Nel tono di sfida, si legge la tensione dialettica tra natura e pensiero, laddove lo scoramento intellettuale si fa forza del reale per affrontare i dilemmi del presente, la sua stagnazione.

Ma guardiamo al messaggio ideologico di ‘Neve e faine’. Fortini, nell’onorare la dimensione naturale, organica, vitale (‘nostro onore è somigliare a brute cose’) ne dichiara lo statuto elitario, con autoironico orgoglio: ‘Dunque un lamento in questi versi udite?’ L’orgoglio stesso è presentato con una posa stracciona, teatrale e brechtiana, che invita a sottoporre a verifica l’idea del corpo poetante, mero luogo di brutali ed egoistici bisogni. Si avverte il baratro di una distanza, non solo tra osservatore e cose osservate, che si stagliano contro il paesaggio innevato, distanza che la poesia in principio può colmare, ma tra i vari elementi del dialogo e i suoi strumenti. Nell’ansia di confronto, si legge la tensione dialettica tra natura e pensiero, laddove lo scoramento intellettuale si fa forza del reale per affrontare i dilemmi, divisi dall’incomprensione, sempre in agguato in ogni atto comunicativo, per quanto retoricamente strutturato e tracciato di atti interpellativi, voluti come chiarificatori. Questa poesia, di conseguenza, assolve innanzitutto l’ufficio di ragionare sulla forma-espressione, riflessione che è, in molti altri casi, preminentemente didattica – contrapponendo, in modo didascalico, forma e contenuto – mai promuovendo la poesia come lingua-ideologia, separata dal mondo concreto e reale.

Quando Guido Mazzoni nel suo volume Forma e solitudine: un’idea della poesia contemporanea, Volume 13 (2002), e Luca Lenzini ne Il poeta di nome Fortini: saggi e proposte di lettura (1999) recuperano in Fortini la figura del poeta lirico, lo fanno sapendo che egli avrebbe rischiato la sorte di cadere progressivamente nell’oblio, in quanto trascorse le epoche del combattimento partigiano e dell’engagement letterario, a lui connaturate, anche dopo che il tempo della lotta era ormai finito. Questo in ragione del fatto che la ‘lotta interiore’, ovvero ‘mentale’ di Fortini (Luperini), maturata sul piano storico, da una parte, e personale dall’altra, partendo in epoca prebellica come percorso di formazione artistica (Noventa), politica (esperienza partigiana) e religiosa (conversione alla Chiesa Valdese), raggiungeva nel dopoguerra mutati contesti, attraverso il Sessantotto, fino agli ‘anni di piombo’, la Guerra del Golfo, toccando tutte le circostanze reali dilemmatiche contro cui la sua valoristica (e la sua prospettiva di pensatore militante comunista) si scontrava. Questa la ragione per la quale oggi si cerca di rivalutare l’aspetto poetico dell’opera di Fortini, che dietro l’esempio del Jean-Paul Sartre di Critica della ragione dialettica (1960), si sforza di conciliare il materialismo storico marxista con l’esistenzialismo poetico. Attento conoscitore di Sartre, Gramsci, Lukacs, le cui teorie sintetizza, Fortini ritiene che la letteratura sia, infatti, sempre compromessa con la realtà di un’epoca. Ne consegue che Fortini, come Pasolini e Vittorini, ritenga lo scrittore responsabile moralmente, socialmente e storicamente di ciò che consegna al lettore interpretante, sicché ogni testo riflette un contesto oggettivo da conoscere ed eventualmente trasformare.

Dietro l’esempio dei filosofi della Scuola di Francoforte, che conosce a fondo, e soprattutto di Adorno, Fortini esprime, nella saggistica e in molta sua produzione in versi, l’etica e l’estetica del ‘pensiero negativo’, rivale dell’ottimismo storicista del marxismo ortodosso. Come i francofortesi, Fortini evidenzia il carattere di utopia del prodotto artistico e mette in guardia contro i suoi inganni, assumendo sempre un punto di vista esterno all’opera, il cui scopo, certo non tranquillizzante, suasivo, è quello scomodo di indicare, nella lirica, una pienezza di vita ormai perduta, che la società odierna nega. Le sue propensioni critiche, difatti, non vanno all’arte realista, ma alle avanguardie storiche come l’Espressionismo e il Surrealismo dove ad emergere è soprattutto il disagio esistenziale ed intellettuale dell’individuo.


Fortini, lo si è detto e ripetuto, riteneva, come Adorno, Marcuse ed i francofortesi, che il linguaggio elettivo della poesia debba essere linguaggio del ‘Grande Rifiuto’. Nella poesia, tuttavia, diversamente che nella sua scrittura saggistica, Fortini fa convivere Marx e Hegel, come conciliazione tra forma, che tende ad una sua armonia interna, e ragione dialettica in una ‘concordia discors’. Nella scrittura saggistica di Fortini in misura maggiore che nella sua poesia, la ragione dialettica non perviene mai ad una sintesi conclusiva, e si pone piuttosto dinanzi ad una serie di contraddizioni non risolte e non conciliate con la realtà. Superata l’illusione di una trasformazione rivoluzionaria della nostra società, a cui pensava Fortini, si può, senza tema di apparire nostalgici o astorici, riattualizzare un discorso sul suo avere vissuto interamente da poeta la crisi novecentesca della funzione della poesia; dunque considerare come la sua opera sia contenitore sì dell’ideologia marxista, ma anche di prassi linguistiche e soluzioni formali sue proprie, al cui centro ritroviamo l’uomo, il suo sguardo sul tempo e la sua voce. Sicché, come ricorda Mazzoni nel suo volume, citando Adorno, ‘le forme dell’arte registrano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti.’ Fortini, che, col suo proverbiale verso, ‘nulla è sicuro, ma scrivi’ esprime – come il Montale di ‘Una totale disarmonia con la realtà’ e ‘È ancora possibile la poesia’ – una certa perplessità verso quel valore assoluto, che Ungaretti, ne ‘La missione della poesia’, attribuiva alla parola poetica, anticipa tali riflessioni in ‘Altra arte poetica’ del 1957. Si tratta di un testo dove il senso di una poesia è affidato agli interpreti del messaggio poetico, altrimenti velocemente disperso nei ritmi della società di massa e dei media, che confinano la poesia ad un ruolo sempre più incerto e marginale. L’impegno didattico del poeta si traduce qui in un disvelamento dell’inganno lirico:

Esiste, nella poesia, una possibilità
che, se una volta ha ferito
chi la scrive o la legge, non darà
più requie, come un motivo
semi modulato semi tradito
può tormentare una memoria. E io che scrivo
so ch’è un senso diverso
che può darsi all’identico
so che qui ferma dentro il verso resta
la parola che senti o leggi
e insieme vola via
dove tu non sei più, dove neppure
pensi di poter giungere, e cominciano
altre montagne, invece, pianure ansiose, fiumi
come hai visti viaggiando dagli aerei tremanti.
Città impetuose qui, sotto le immobili
parole scritte tue.

[....]
Lo spazio temporale che separa questo testo del ’57, ‘Altra arte poetica’, da Questo muro, del ’73, ci fa intravedere il lavoro intellettuale di Fortini tra gli anni Cinquanta e Settanta – decadi che, segnano il processo di industrializzazione della società e della cultura – per il quale otterrà la libera docenza all’Università di Siena, nel 1971, per la cattedra di ‘Storia della Critica Letteraria’.
La tendenza interpellativa nella poesia di Fortini, in effetti, non registra una crisi del linguaggio, come fu per Zanzotto, né una crisi civile come fu per Pasolini, ma una crisi del mandato dello scrittore, che è amara constatazione della caduta di solidarietà e consonanza ideologica tra gli scrittori impegnati nel dibattito politico-culturale, caduta responsabile della crisi del ruolo sociale della letteratura (Verifica dei Poteri, 1965) Se c’è un impegno, infatti, a cui Fortini mantiene fede fino alla fine è quello di una poesia dissidente, costantemente attenta alla lotta per la trasformazione del rapporto tra arte e società. Se lo scrivere versi è un rapporto di mediazione tra lo scrittore e il mondo – e se il veicolo dei versi è un corpo che, avanzando, lascia tracce – dunque il corpo non può apparire più come effimero centro di bisogni. Nella sua corporeità, la faina non è solo espressione di istinti, ma soggetto di conoscenza. L’agire corporeo della faina si fa allegorico, mutando il punto di vista del lettore. La faina appare a fine poesia, ed è detta al plurale, quindi collocata in una complessità di livelli e contesti con i quali anche il lettore entra in relazione. Non solo: l’immagine delle faine che si aggirano in cerca di cibo per la campagna rivela un discorso di poiesis, che induce la loro corporeità a passare dall’oggettività alla soggettività. ‘Neve e faine’ induce a credere che Fortini la ritenesse esempio di un procedimento di analisi della realtà, capace di indicare le tracce di un senso nascosto. Nel suo rappresentare le faine, che segnano il territorio naturale, il poeta fa pertanto presente il significato di un’azione volta alla comunicazione.
Se da Marxista militante qual era un messaggio Fortini comunica con ‘Neve e faine’ è che nella natura dell’essere umano (e perciò dell’artista) coesistono l’uomo natura e l’uomo intelletto e che, in questo rapporto dialettico, qui causa d’orgoglio e non di disonore, entrano in gioco tutte le potenze di cui egli o ella è capace, intellettuali e fisiche, sociali e politiche. Tuttavia, questa comunicazione, fatta di segni direzionali, tracce-percorso, si attua con un margine di differenza notevole rispetto alle tracce lasciate dall’animale sanguinario, che ha sbranato la sua vittima, nella poesia ‘L’animale’. La cosa bruta – l’umano, quando persegue la necessità - è anche capace di progettare sistemi, seguire itinerari, istruire i propri simili a capirne le tracce; è in grado, dunque, di progettare lavoro, arte e dialogo, elementi dell’agire che elevano l’opera al di sopra della sua bruta materia fisica e delle sue finalità circostanziali. Così che l’individuo, intento ad esplorare spazi e segni, passi dall’essere agente istintuale (l’animale sanguinario) ad essere agente attivo (l’animale progettuale) con la sua intera azione, come corpo colto nel suo fare, nel suo avanzare, nel suo determinare/si e ideare/si).
Lo scrivere versi è una mediazione che porta ‘la necessità’ dell’agire da un’opposizione ad una consonanza, dalla materia bruta, rappresentata dalla faina e dai propri bisogni (del suo aggirarsi sulla neve-pagina bianca), alla materia comunicativa, astratta, creativa, che si appropria del campo bianco e dello spazio di esplorazione e mostrandolo, lo condivide. Le faine che avanzano nella neve sono espressioni pertanto di due dimensioni solo superficialmente opposte.

Il problema della responsabilità del rapporto con il destinatario diventa una costante dell’opera di Fortini, che nei versi citati (analitici, introspettivi, e realistici come si addice al temperamento modernista), sembra dare voce a due componenti costitutive del dialogo, correlando gli elementi che nel testo rispondono al piano dei contenuti con quelli che attengono al piano della forma, in un gioco non necessariamente armonico o organico (‘Si, ma rotta sul volare del vento’) di possibilità affidate all’atto interpretativo e all’ascolto, mettendo in risalto, non senza all’interno di una cornice mentale ironica, inoltre il logoramento del codice convenzionale di questo scambio tra il concreto e l’astratto dell’esperienza dell’esserci e relazionarsi, in altre parole tra l’empirico ed il teorico dell’arte nel suo darsi: ‘A questo gli altri ci hanno ridotti’. Da cui, il suggerimento che soggetto e testo nel loro darsi, sono ricevuti, interpretati e dunque eventualmente trasformati (‘nostro onore somigliare a brute cose / non avere traccia d’uomo’), laddove il vagare della faina, da sola o in branco, è assunta sia a simbolo sia ad allegoria del rapporto tra il poeta e il mondo sensibile, dominato dalla necessità. L’amara (ed ironica) retorica dell’onore (del poeta) attiene ad un’altra metapoesia di Fortini, dal titolo ‘Arte poetica’ (Poesie scelte, 1938-1973):


Tu occhi di carta tu labbra di creta
tu dalla prima saliva malfatto
anima di strazio e ridicolo
di allori finti e gesti

tu di allarmi e rossori
tu di debole cervello
ladro di parole cieche
uomo da dimenticare

dichiara che il canto vero
è oltre il tuo sonno fondo
e i vertici bianchi del mondo
per altre pupille avvenire.

Scrivi che i veri uomini amici
parlano oltre i tuoi giorni che presto
saranno disfatti. E già li attendi. E questo
solo ancora è il tuo onore.

E voi parole mio odio e ribrezzo,
se non vi so liberare
tra le mie mani ancora
non vi spezzate.


Insieme di essenzialità, recitativo solenne, e commedia, il discorso qui diventa metapoetico, una rappresentazione diretta e non figurata di una condizione di pena emotiva, oltre che mentale.
Altra cosa è l’allegoria spersonalizzante di ‘Neve e faine’. La faina è animale che a notte si addentra su una pista innevata e provvede a se stesso, ferinamente, alludendo connotativamente alle virtù dell’eloquenza poetica, laddove per il poeta l’esprimersi è anche una necessità vitale. Interessante è l’uso che da esperto conoscitore di retorica e stilistica, Fortini fa dell’allegoria, una figura poco frequentata nel Novecento.


Il processo allegorico di questa figura sopprime qui perfettamente i blocchi di significato sottesi, per rimpiazzarli con un diverso livello di senso. La faina è, verosimilmente, personificazione della scrittura e del linguaggio poetico, e sostituisce con la sua presenza materiale, un valore, accentuato dal suo procedere nella ‘neve’. Qui Fortini ricorre ad una antica concezione dell’istinto poetico, come una forza mentale che imita la natura: addentrarsi nel paesaggio bianco di neve, infatti, equivale a percorrere una pagina su cui il poeta, o faina, abbia lasciato le sue orme, perché, come Elio Vittorini spiegava in un suo saggio del 1948 sull’engagement letterario, la letteratura è engagement naturale contro la metafisica dell’impegno quale fede in un’arte dalla funzione etica ‘programmabile.’ Il seguire queste tracce, nella poesia di Fortini, implica, per analogia, porsi interrogativi sull’esperienza della soggettività in relazione al movimento del singolo tra intuizioni ed indizi (dunque anche quelli lasciati dalla scrittura poetica). Significa penetrare in un processo di conoscenza, o per via razionale, o come pura riprovevole ferinità, seguendo il nesso fato e libero arbitrio. ‘Neve e faine’, pertanto, allegorizza, e rende densamente retorico, il processo di formazione delle tracce e relativo movimento di interpretazione, trasferendo qui come altrove, nel campo del correlativo oggettivo, usi linguistici, terminologie settoriali e idee che attengono alla cerchia professionale del letterato. Vale, a questo proposito, ricordare il Lukács di ‘Lo scrittore e il critico’ (Marxismo e la critica letteraria, 1953: p. 436), chiamato in causa direttamente da Fortini, quando affermava: ‘Da noi invece, fino ad ieri almeno, molti critici militanti credevano ancora di correre con la maglia del marxismo e dello spiritualismo cattolico e non sapevano di avere già stampato, sulla schiena, il nome di una ditta di tubolari della cultura, o di dentifrici letterari. (Verifica dei poteri, cit.: 42)

Nel saggio ‘Crisi degli intellettuali’, Fortini aveva esposto come la scrittura muova da un fenomenico sensibile già disposto secondo schemi culturali precisi che impongono al testo le tensioni e le contraddizioni di cui lo scrittore deve assumere responsabilità e coscienza, per superarne ideologie, visioni del mondo, criteri di giudizio e linguaggi ereditati. (Verifica dei Poteri 1965: 67). La ricerca poetica non può avere una sua libertà: essa è legata al sistema letterario da cui trae storia e vitalità. La libertà della poesia va dunque celebrata nella necessità, nella coerenza, nell’unità del sistema, che in tal modo fa dell’arte retorica il fulcro di resistenza contro le contraddizioni del reale. Si tratta di una disposizione antiromantica, che porta avanti una polemica della ragione critica verso gli infiniti aspetti del reale e della storia. Per il Fortini hegeliano, concrete sono, nelle loro singolarità, le cose, la realtà, la storia. Razionale è ciò che è reale e concreto, mentre le astrazioni sono vuote costruzioni intellettuali, prive di senso: da cui il costante ricordo di Fortini alle immagini e all’allegoria per porre la poesia al servizio della comunicazione e della riflessione critica. Una fiducia nella poesia come rivelazione, che in Fortini saggista, tuttavia, appare delimitata dalla consapevolezza che la scrittura poetica, come genere intessuto di codici e sottocodici suoi propri, in connessione costante con il contesto ed extratesto storico-sociale, può, per sua natura, rivelare verità, ma anche, paradossalmente, nasconderle.

In epoca contemporanea, spiega Fortini, ad ogni progresso della conoscenza scientifica sembra corrispondere una diminuzione della funzione didascalica della letteratura: una poesia non può, da sola, superare una data visione del mondo creata dalla tensione prodotta dai rapporti che intercorrono tra l’industria e lo scrittore ‘in quanto uomo’. La scrittura, in versi o in prosa, dovrebbe, dunque, fondarsi, se non altro, su un concetto di ‘resistenza’. Da intellettuale formatosi sul modello gramsciano, in Letteratura e vita nazionale e Quaderni dal carcere, Fortini riteneva che questa capacità di resistenza, connaturata alla poesia, dovesse essere trasferita al linguaggio della critica per impedirne un mero, fideistico formalismo libresco. La critica autenticamente impegnata deve, infatti, fondarsi sugli stessi principi della lotta partigiana, come forza dissidente. Tale processo implica, al contempo, passività e dinamicità, devozione e innovazione, fino al momento in cui la presa di coscienza non sfoci nella scelta di una tematica.


(Ripubblicato con autorizzazione della casa editrice Brindin Press nell'agosto del 2011) - Seconda edizione riveduta ed ampliata del volume del 2004.


NB: Stralci dal saggio dal volume, Erminia Passannanti, Senso e semiotica in Paesaggio con serpente, Brindin Press, Leicester, UK, 2004.


All rights reserved: (c) Erminia Passannanti / Brindin Press (2004)

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Link all'articolo ripubblicato su Ospite Ingrato: first published in Italy as web content of the E-zine, L'Ospite Ingrato. URL: http://www.ospiteingrato.org/Fortiniana/Fortini_Passannanti.html / Rights for republsihing the essay were given in the written form by the author herself to the Archivio Fortini in Siena.