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martedì 24 novembre 2020

Gianmario Lucini su Mistici, di Erminia Passannanti


Gianmario Lucini e Event Organizer Patrizia
(Venezia)
Foto di Erminia Passannanti

Mistici

Poesie di Erminia Passannanti

(Ripostes 2003)

Nota di Gian Mario Lucini 

Chi nella poesia di Mistici cercasse un centro, un motivo ispiratore, un filo rosso che sorregge la raccolta, probabilmente si troverebbe in gravi difficoltà, perché Mistici è un volume policentrico, una specie di trama che rifiuta un ordine fisso. Eppure, anche se alcune poesie sono già state pubblicate dall'autrice in altre raccolte (Macchina, Manni, 2000), il senso dato a Mistici è evidentemente quello di una coesione particolare. L'elemento che costituisce questa trama è, come altri hanno rilevato, il sogno, la visione o l'allucinazione dei sensi, ma anche della mente, una specie di nascosto delirio che si esprime con un suo linguaggio surreale, denso di immagini vivide e paradossali, a volte prese tout court anche dalla vita reale, o anche da una sensibilità pittorica manierista, e poi montate per associazione in un racconto - perché di racconto si tratta - tutto interiore. Scrive Pietro Cataldi nella Prefazione alla pubblicazione: "La scrittura di Erminia Passannanti mette in discussione radicalmente le cinque W [What, Who, Where, When, Why]: non sono ovvi e a volte non sono perspicui, né l'oggetto né il soggetto, né il quando né il dove né tanto meno il perché". Si direbbe dunque il linguaggio simbolico dei sogni, se non fosse che il libro non parla di sogni ma di vita reale e pone una tematica che non è affatto onirica: solo le immagini, la scrittura, l'apparenza di questi testi richiamano il sogno; la sostanza tematica è di ben altro segno e di urgenza esistenziale.

E qui viene in mente Amelia Rosselli, poeta che Erminia Passannanti ama particolarmente ed alla quale indubbiamente si riferisce in alcune scelte espressive, a volte persino in alcune forme linguistiche (ad esempio l'uso dell'imperfetto in forma arcaica: io stava come pia donna presso l'altare... ) o la ricerca di forme stilistiche medioevali - come in Eresia, a pag. 27, che riecheggia un sonetto cinquecentesco). Ed è peraltro rosselliana - perché la Rosselli l'ha enfatizzata più di ogni altro poeta - anche la costruzione libera/associativa dei significati. Sembra anche un omaggio esplicito alla Rosselli, la poesia Profezia, che narra gli stati d'animo di una suicida. Pasoliniano, invece, lo sfondo espressionistico, le tinte forti del corpo tragico e al contempo ludico, e la campitura di queste composizioni: una incessante interrogazione di natura religiosa (ma non confessionale: parlo qui di religiosità laica, ossia delle domande che la mente si pone intorno al suo centro, intorno all'essere e alla sua essenza). Domande che l'autrice non risolve certo in una ricerca filosofica, di cui nel libro non troviamo traccia, ma che semplicemente vengono dette, annunciate in tutta la loro terribile evidenza e collocate nel quotidiano dell'attimo, come (e qui entra l'elemento onirico) un sogno ad occhi aperti nel quale la vita "reale" è solo un'interruzione momentanea, una parentesi aperta e chiusa. O meglio: non è possibile distinguere se il "racconto" della Passannanti sia quello di un sogno che avviene nella vita reale, come a sprazzi raccolti e messi per scritto, allucinazioni momentanee che l'autrice cerca di vincolare al verso, oppure se la vita stessa di ogni giorno sia una parentesi di altra inspiegabile natura che fluttua dentro questo sogno, una specie di finestra aperta dalla quale ci vediamo vivere. Il mistico infatti è colui che non sta nella dimensione terrena, che aleggia a mezz'aria attratto dal mistero, è il corpo che si trasfigura ed assume la natura del fenomeno nel quale si perde, che diventa inconsistente, etereo.

Illuminante, per la comprensione del libro, le ultime 8 pagine in prosa, una specie di dialogo dal sottofondo un po' ironico e un po' polemico (a volte anche ingenuamente blasfemo, ma mai con malizia e con pretesa dottrinale o filosofica), che si riferiscono a colloqui che l'autrice ha avuto con sua madre su temi religiosi, o meglio sulla figura di Gesù, e che per tema centrale hanno l'umanità di Cristo, questa inconciliabile dimensione del finito con l'infinito. La figura del corpo (di Cristo) è il maggiore ostacolo alla comprensione di Dio e la sua natività misteriosa la vera incomprensibile assurdità teologica.

Mistici non è che la storia di questa oscillazione della mente fra materia e spirito, fra corpo e sensi e idea di trascendenza, fra istintualità dell'umano legata al corporeo, alla sensualità, alla sessualità e idea di un ultra-terreno dove il corpo non è, dove l'IO è leggero e inconsistente come il sogno o come l'idea. La dimensione esistenziale di cui dicevamo sopra ruota intorno a questa inconciliabile dualità che la persona umana in sé simboleggia, come segno di eternità (a-temporalità, a-spazialità) da una parte e finitezza, decadenza, corruzione (temporalità e spazialità) dall'altra. E il pensiero, la sensibilità, il sentimento, l'istinto, che sono a metà fra queste due dimensioni perché vissute come una specie di interfaccia fra spirito e materia, si perdono, si sconcertano, arrivano all'afasia. Il delirio non è altro che una forma di difesa, il dolore dell'essere consapevole di questa dualità che si esterna e cerca un altro spazio, un altro mondo vivibile e conciliato, dove la dualità diventi unità.

Numerosi e importanti sono, nel libro, i richiami all'impossibilità di questa conciliazione. Numerose anche le figure evocate (l'ostia, la monaca, ecc.) che nella loro fisicità inibiscono lo slancio mistico, lo ricacciano nella materia, lo riducono a cifra di questa inconciliabilità. E in questo vediamo un chiaro segno della cultura anglofona nella quale l'autrice vive immersa (ha tradotto, infatti, Emily Brontë e R.S. Thomas, Seamus Heaney e Sylvia Plath, essendosi occupata della poesia di quest’ultima per la sua prima tesi di laurea). Da questo punto di vista potremmo azzardare che il libro stesso sia in qualche modo la risultante di due formazioni culturali che coabitano l'IO di Erminia Passannanti: da una parte la solarità sognante e l'oro del barocco napoletano ma anche i chiaroscuri del manierismo, e dall'altra l'asciuttezza e la concretezza del pragmatismo.

Mistici è dunque, per noi, un libro che oscilla fra poli contrapposti. Anche Cataldi lo ha rilevato, nel senso di una conciliazione di opposti. Noi non vediamo questa conciliazione ma piuttosto un luogo aperto, un teatro dove tutto si recita senza mai concludersi, la storia dell'Io che fluisce e non sa per dove, come, quando, perché, e chi esso sia (le cinque W evocate da Cataldi). Per questo ci sembra che la nota saliente di questa scrittura sia esistenzialista e non surreale, e che surreali sia soltanto il modo di scrivere dell'autrice, la sua sintassi espressiva.

Questa è pertanto quella che noi consideriamo la "campitura" del libro, l'ambiente mentale nel quale le poesie possono essere collocate. Sono poesie che narrano della propria esperienza, che la raccontano, che raccontano fatti reali pur registrati dalla mente con una specie di tremore emotivo, che a volte (ma tutto sommato non spesso) si difende con un vezzo ironico, come una rassicurazione, una sospensione.

 

lunedì 22 ottobre 2012

Il Corpo & il Potere Salo' o le 120 Giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini

 
 
              
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Il Corpo & il Potere
 

Salò o le 120 Giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini

Authored by Erminia Passannanti
Screenplay by Pier Paolo Pasolini

Questa monografia prende in esame l'ultimo film di Pier Paolo Pasolini del 1975, Salò, o le 120 giornate di Sodoma, e ne mette in relazione il linguaggio figurato con i violenti epigoni del regime fascista nella Repubblica Sociale di Salò.


Publication Date:
ott 24 2004
ISBN/EAN13:
1480155365 / 9781480155367
Page Count:
126
Binding Type:
US Trade Paper
Trim Size:
6" x 9"
Language:
Italian
Color:
Black and White
Related Categories:
Performing Arts / Film & Video / History & Criticism

lunedì 10 settembre 2012

Poesia del dissenso - Recensione di Daniela Raimondi

Daniela Raimondi. Recensione di Poesia del dissenso.

Poesia del dissenso

La poetica di Erminia Passannanti


La poesia di Erminia Passannanti, unica voce femminile nella raccolta, usa un linguaggio altamente evocativo ed emotivo. Nel suo spazio poetico si annulla totalmente la divisione fra il dentro e il fuori, fra il corpo e il mondo. Qui la voce del dissenso acquista un’impronta di carnalità dolente e sofferta che sembra rimbalzare continuamente fra la realtà esterna e il malessere interiore, che viene percepito in modo viscerale.

Una fisicità sofferta e viva, ma sempre accompagnata dall’affannosa ricerca di una realtà al di là dell’inganno, al di là di un’esistenza ostile e spesso incomprensibile: ‘Mi faccio strada tra sassi ed erbacce/ La bocca spalancata ai petali/ Che esigono vita/ Il respiro la spiegazione di cosa/ Sia sangue terra acqua.”
Questa fisicità, sofferta ma profondamente viva, si contrappone con forza alla staticità arida e sterile del mondo:
“Non sono morta giaccio Con le mie perle al collo Una perla per ogni anno Perle negli occhi inganno Su questa nebbiosa pianura.”


Un mondo che, nei versi di Erminia Passannanti, viene percepito come mero teatro della falsità. Frequenti, infatti, i riferimenti alla teatralità, alla commedia in cui veniamo trascinati “per mano d’una teatralità/corale...copiata somiglianza/ e trasformazione del vero/ commedia della tragedia...

Ma il palcoscenico come pietra negli occhi/di quest’opera di umana prece/era deserto.” A questa finzione Passannanti contrappone immagini di elementi primari che sembrano riportarci a un mondo ancora intatto: sangue terra acqua, e a questi si aggiungono spesso elementi corporei: ossa, ventre, bocca spalancata, lingua, piedi, occhi, utero.

Elementi tangibili, vivi persino nelle loro funzioni più degradanti: ‘addome inflato,... budello che espelle una nerastra cannula...’. Sempre contrapposti con grande forza sensoriale ed evocativa alla falsità che ci viene quotidianamente somministrata.


Anche nei testi di Erminia Passananti sono frequenti i riferimenti a una religiosità che risulta essere lontana dai bisogni spirituali degli uomini e particolarmente repressiva nei confronti della donna. Una religione che ha perso ogni segno di umanità e di ‘pietade’. La Madonna è spaventosa, un feticcio di pietra freddo e inflessibile: “Di marmo era, e senza alcun rimpianto”. Nella poesia Correcta la crudeltà di un sistema religioso punitivo e istituzionalizzato mostra il suo lato più oscuro e il suo carattere particolarmente oppressivo nei confronti della donna, mortificando sopra ogni cosa la sua femminilità:
“dopo quaranta giorni, con purissima acqua Come all’ingresso d’una vita nuova, Si lavi il ventre della condannata, Il suo ventre defunto, Come si laverà quello futuro: Ella riprenderà abiti e brache.”


La figura femminile risulta dunque doppiamente vittima e doppiamente dissidente perché oppressa sia come individuo sia come sesso da un potere sociale che, nel caso della donna, diventa anche controllo sessuale:
“In altri spazi mi muovo, alterata.

La veste a sciupare un’innocente rosa Giungendo ad impedirne La stagione di sposa
Per una mano d’una teatralità Corale da ricondurre Agli esiti del corpo In purezza.”
Ma il dissenso della Passannanti non diventa mai un grido nichilista e autodistruttivo.

Nei suoi versi traspare un costante percorso di auto analisi, di puntigliosa ricerca lungo un “pelleggrinaggio dell’auto scoperta” spesso spietata, spesso impedita dai limiti della parola che può portare solo “alla soglia della pretesa”, o da un’arte che rischia di diventare un altro palcoscenico di finzioni e futili ripetizioni. Eppure nei suoi testi è presente il suo credere nell’uomo, nel suo pensiero e nella capacità rigeneratrice del dolore: “Ci si deve perdere/Per ritrovarsi”, dice il poeta. Noi siamo gli attori, partecipi e vigili sul palcoscenico del mondo, non solo riproduzioni, cloni, ma forza creatrice e rinnovatrice in continua evoluzione e movimento:
“Essendo io l’attore. Non mera riproduzione Imitazione riconoscimento Rinnovante. Di piedi dotato, e genuino Motivo del ragionamento.”

“Ci si deve perdere per ritrovarsi.” La sua silloge è un percorso di auto analisi che riflette, in modo laico e in tono dissidente, il percorso di purificazione della protagonista di Correcta. Nonostante tutto, non siamo morti. Non macchine, ma sostanza viva: sangue, terra, acqua. E pensiero. Forse non esiste forma più forte ed efficace di dissenso che l’inesauribile capacità di creazione e di rigenerazione che fa così visceralmente parte dell’universo femminile, e che traspare dai versi dell’autrice con grande efficacia ed energia.

Recensione di Daniela Raimondi, London, UK.

giovedì 19 gennaio 2012

SULLA FUNZIONE FORTINI

LUCA LENZINI / ERMINIA PASSANNANTI
SULLA FUNZIONE FORTINI 
(RIVISTA OSPITE INGRATO, SIENA)


La funzione Fortini nei poeti contemporanei. Un'indagine 

Qualche mese fa la redazione dell’Ospite Ingrato on line ha pensato di dedicare uno spazio di riflessione alla poesia contemporanea. In particolare ci siamo concentrati sulla possibilità, facilitata dal nuovo formato on line della rivista, di aprire un dialogo con i poeti di oggi a partire da alcune questioni poste dall’opera di Franco Fortini. Con questo obiettivo abbiamo progettato un’indagine a largo raggio, la cui prima fase è costituita da interviste in base ad un questionario. Gli oltre centocinquanta poeti a cui abbiamo pensato di proporre l’indagine sono stati scelti tra quelli che hanno esordito non prima del 1973.
Il questionario è in due parti: la prima, impostata sul modello dell’inchiesta, è finalizzata a raccogliere informazioni che riguardano la formazione dei poeti e le condizioni materiali in cui si trovano ad operare nella società contemporanea; la seconda, composta da cinque domande aperte, intende rintracciare l’eventuale vitalità di alcune riflessioni fortiniane. Le informazioni richieste nella prima parte riguardano le condizioni economiche e professionali del poeta, i suoi rapporti con l’editoria e con l’industria culturale. Nella seconda parte sono poste questioni che riguardano, in sintesi: il rapporto tra poesia e realtà, le scelte formali, la traduzione e la «funzione Fortini» nella poesia dell’ultimo Novecento.
Alla diversa e complementare natura delle due parti del questionario corrisponderà un diverso e complementare trattamento dei dati. Le singole risposte dell’inchiesta (prima parte) non saranno pubblicate, ma confluiranno tutte in una rielaborazione complessiva e finale di tipo statistico e rigorosamente anonimo. Le risposte alle domande della seconda parte, se saremo autorizzati a farlo dagli autori, saranno invece pubblicate “firmate” e a scaglioni sul sito dell’Ospite ingrato, in modo da renderle subito accessibili e condivisibili, ordinate secondo un criterio generazionale. Sei pregato pertanto di rispondere, in base alla tua disponibilità, entro il 30 aprile, entro il 30 giugno o entro il 30 settembre 2008. Una fase successiva dell’indagine prevede la rielaborazione critica delle risposte stimolate dalle riflessioni fortiniane, che tenga conto dei dati dell’inchiesta.
ERMINIA PASSANNANTI

LL1. Nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti economici, politici e sociali di grossa rilevanza. Quali sono secondo te le trasformazioni decisive nella realtà contemporanea? Che effetto hanno sul tuo lavoro?

EP1 Come poetessa nasco nel passato: un passato fatto di poesie apprese e interiorizzate, prima come cadenza e ritmo, che come contenuto – contenuto lirico spesso dato didatticamente per scontato, come nel caso di Leopardi, Carducci e Pascoli. Così, per tutte le scuole elementari – fase importantissima, ritengo oggi come allora, per la formazione del futuro poeta ( se rispetto a questa universale vocazione accogliamo le teorie di Vico e Wordsworth), ‘Leopardi-Carducci- Pascoli’, divinità una e trina, erano la poesia italiana. Ti accorgevi solo al liceo che non erano un’unica ‘persona’, e che il campione nazionale di ‘poeta’ era infatti costituito dal binomio Cavalcanti-Dante.
Al tempo della mia infanzia, le poesie si apprendevano a scuola, con il grembiulino addosso, conformati ed uniformati al ‘nuovo’ ideale di alunno voluto dalla repubblica – figlio/a di orfani/orfane di guerra, reduci e combattenti, sposatisi in ritardo in pieno boom economico con l’ossessione della ricostruzione. E da nuovo alunno vivevi la tua bella infanzia tra i muri di una scuola che si diceva riformata, ma i cui schemi erano fondamentalmente desunti da quelli dell’epoca fascista in cui tiranneggiava un vero ed unico modello: quello del concordato tra Stato e Chiesa dei Patti Lateranensi.

Nasco dunque come poetessa fuori da un’epoca in cui le poesie si imparavano a memoria, porte da maestri moralmente irreprensibili (ovvero umili padri e madri di famiglia, cresciuti in pieno fascismo, divenuti educatori e “social workers”), e si ripetevano a casa, aiutati dai propri genitori – che nel mio caso erano appunto entrambi insegnanti, i quali in realtà non aderivano affatto a questo falso modello di scuola riformista, essendo entrambi convinti roussoniani, volti al (mio) futuro.

Ed è così che sono cresciuta al desiderio e alla consapevolezza della scrittura lirica come fuga verso una realtà più libera sentendomi lacerata tra il frequentare una scuola conservatrice e reazionaria, (che impiegava e retribuiva i miei genitori) e una famiglia anticlericale e progressista, all’interno della quale ero l’autorizzata ‘anarchica’.

La storia che ha influenzato la mia (diciamo) ‘vocazione’ allo scrivere versi, non parte tanto dal presente degli anni Sessanta, in cui nascevo, ma dal passato: sia della guerra e del fascismo patito dai miei già vecchi genitori - l’una orfana e l’altro ufficiale tenuto prigioniero in un campo di concentramento per due anni dai nazisti – sia della tradizione letteraria dell’ottocento che si insegnava prevalentemente a scuola, fino alle medie. Le rose dell’abisso, insieme a paesaggio con serpente, di Fortini, mi hanno fatto comprendere quanto abbia profondamente agito su di me, sul mio stile, sulle mie scelte di scrittura, questa tradizione.

Ma la vocazione poetica (che si genera dalla visione del mondo) non è la stessa cosa che la pratica dello scrivere versi: la prima può rimanere inespressa, o sottoespressa, date le condizioni della seconda. La mia vocazione è stata sostenuta dalla prassi della traduzione letteraria e dagli studi universitari di letterature straniere.

La mia prima traduzione poetica è stata quella delle poesie delle sorelle Brontë – Emily Charlotte e Anne – pubblicate da un editore minore ma di buona reputazione – Ripostes. Le condizioni economiche di me come scrittrice e persona in cui queste prime esperienze si collocavano non erano precarie, essendo studentessa con una famiglia benestante alle spalle, ma non erano nemmeno chiaramente propizie, dato che, dopo la laurea, sono rimasta a lungo sottoimpiegata come insegnante, come prevedevo (temevo) accadesse.

La traduzione delle Brontë mi procurò una borsa di studi, assegnatami dall’Istituto di Studi Filosofici dietro indicazione di Franco Fortini, che scelse personalmente la mia candidatura di borsista per il suo corso seminario “La traduzione poetica”, e mi scelse – seppi in seguito – proprio in ragione della qualità formale di quella mia prima traduzione. Così, per me vale e varrà sempre l’idea di Fortini della traduzione poetica come esercitazione creativa, ma anche marziale, alla ricerca di una propria “voce”.

Quanto al contesto storico, la mia prima raccolta – Macchina - era pronta nel 1993, vinse un premio Nazionale nel 1995 (Premio Laura Nobile, di Siena) ma è potuta venire alla luce nella collana curata da Romano Luperini per Manni, “La scrittura e la storia” solo nel 2000, perché mi mancavano i fondi richiesti dall’editore per autofinanziare quella prima pubblicazione. Aggiungo che malauguratamente, sebbene il premio Laura Nobile consistesse proprio nella pubblicazione dell’opera, questa non fu mai finanziata dall’ente promotore.

Una raccolta successiva l’ho intitolata La realtà (2004) ed era un tributo in primis a Questo Muro, di Fortini, e dunque ai miei ideali marxisti per i quali, date le circostanze di vita, non ho potuto mai concretamente battermi. La ‘realtà’ di questa raccolta è dialettica, in bilico tra procedimenti allegorici e simbolici che parlano della nostra storia contemporanea, ma in modo radicalmente trasversale, dunque, essenzialmente, dalla prospettiva dell’artista e dell’intellettuale non integrato, dissidente, quale Fortini mi ha indicato d’essere.

LL2. Molte poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?

EP2. Quando mi sono resa conto che la metascrittura iniziava a diventare tra gli scrittori una vera moda, un vezzo, ovvero, una facile scappatoia (non solo una necessità dell’artista nel suo rapportarsi al linguaggio e ai suoi segni) ho cercato di evitare di indulgere in metascritture. Il re-writing e l’intertestualità sono strumenti indispensabili sia al poeta sia al traduttore di poesia, ma bisogna agire un forte controllo sugli allettamenti di queste componenti autoreferenziali, per non farsi prendere in meccanismi consolatori e narcisistici. Nulla può dire di nuovo, può cambiare, la poesia, ammoniva Fortini. Nessun poeta, nessun testo può vantare un’assoluta originalità. Ma bisogna lottare per continuare a scrivere con la consapevolezza di questa difficoltà. L’autoreferenzialità programmatica, come discorso che un’arte fa su se stessa, comunque, la preferisco al cinema, sebbene anche quella stia ormai scadendo in maniera tanto da non suscitare più nessuna sorpresa anche nei migliori registi.

LL3. «Il costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri severi di sforzo e progetto [...] In questo senso il valore di ogni forma è anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione» (Fortini, Sui confini della poesia, 1978, in Id., Nuovi Saggi Italiani, Garzanti, 1987). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa, grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti, flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati investi le tue operazioni di formalizzazione?


EP3. Io credo che al numero tre del questionario abbia risposto con la mia mini-monografia su Poesia delle Rose, dove Fortini affronta il complesso imponente di tutte queste questioni, usando appunto le armi del ‘camouflage’ letterario, che sotto sotto esamina appunto questo lento, profondo, maestoso processo di formalizzazione della poesia. Preferisco citare direttamente dal Fortini di Verifica dei Poteri: “(La poesia) assolve l’uffizio di essere un assillo ad un adempimento reale, interumano, della propria immagine formale e a un tempo luogo di consumazione anticipata (quindi mistificata come quella di una droga o di un’ostia) d’una pienezza fulminea e immaginaria. (p.254)

LL4. La traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non ha.» (Fortini, Prefazione al Faust, 1980, in Id., Saggi ed epigrammi, Mondadori, 2005). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la poesia contemporanea in lingua straniera?

EP4. Sono stata e rimango una traduttrice di poesia in lingua inglese in Italiano: ho tradotto, come dicevo, le Brontë, Sylvia Plath, Geoffrey Hill, Seamus Heaney, e curato una antologia di poeti britannici, Gli uomini sono una beffa degli angeli. Dopo essere stata borsista di Fortini, ho collaborato con lo scrittore tedesco Sebald per tre anni, d’estate, al suo progetto “British Centre of Literary Translation”.

Ho collaborato con l’Arts Council del Galles e tradotto poeti gallesi importantissimi, come RS Thomas. Ho fatto della traduzione poetica, come arte, genere, linguaggio, l’argomento della mia tesi di dottorato allo University College di Londra sull’opera di Franco Fortini. Non smetto di analizzare e riconsiderare i contenuti del testo di Fortini che curai in quella sede, Realtà e paradosso della traduzione poetica (1989) – opera inedita in cui Fortini esprimeva le sue idee originali su questa disciplina con cui così intensamente ed intimamente accostava, nella pratica e nella formulazione teorica, la traduzione di testi altrui alla scrittura lirica di primo grado, la sua.
La traduzione poetica è senza dubbio la disciplina cardine che per Fortini fu veicolo di un rapporto unico, autentico e vibrante tra tradizione e presente. Non smetto di essere influenzata dal Fortini poeta, dal Fortini saggista e dal Fortini traduttore, come scrittore in cui questi tre linguaggi raggiungono una perfetta sinergia, e così facendo, mi sento e sono sua convinta discepola. Personalmente tendo a tradurre non solo i poeti che mi insegnano a scrivere ma la cui Weltanschauung mi sembra di potere condividere. Tuttavia, nei casi più pericolosi, come in quello dato dalla prossimità alla Plath, seguendo i consigli di Fortini in Realtà e paradosso della traduzione poetica, cerco di rimanere vigile e di operare una resistenza contro la mera gratificazione della forma. Ho provato a tradurre i versi di Amelia Rosselli dall’inglese, ma a quello stadio, era lei stessa ancora immersa in un work-in-process. Non amo tradurre Juvenilia.
Citerei un significativo e noto brano dalla conversazione tra Fortini e Loi, in Franchi dialoghi (pp.29-30) : “Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad alta voce, è eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla, ricrearla. In una certa misura criticarla. Quando si dice che un testo poetico non è interpretabile solo a partire da se stesso si allude alla sua situazione nella cultura e nella storia. Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio.” (pp.29-30)

LL5. Mengaldo ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia» (Divagazione in forma di lettera, in Per Franco Fortini, Liviana, 1980). La politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo si rapporta al tuo lavoro?


EP5. Vedo sopravvivere la funzione-Fortini in poeti noti e meno noti, come Biagio Cepollaro o Enrico Cerquiglini, molto impegnati e sensibili alla crisi del presente, con l’incombente minaccia dell’analfabetismo culturale e storico che investe ampie fasce della popolazione fatta retrocedere ad un centinaio di anni fa per le bieche manovre populiste delle gerarchie al potere. Questa funzione-Fortini come poesia della vera dissidenza, senza bandiera, patriottismi degeneri e dirigenti, ho cercato di farla rivivere in me curando due edizioni dell’antologia Poesia del Dissenso. Fortini, si sa, nelle sue provocazioni, verbali e scritte, porte in forma poetica o discorsiva, saggistica, tendeva a forme di radicalismo che non di rado scatenavano conflitti ideologici, animosità ed inimicizie con i suoi interlocutori, come accadde nella nota polemica con Pier Paolo Pasolini. Spesso ferito dagli esiti i tali scontri, chiedeva ai suoi versi di rendere giustizia al loro fine ultimo, che era quello di conferire senso alle contraddizioni, stabilire un dialogo: “A loro chiedo aiuto perché siano visibili/ contraddizioni e identità fra noi/ Se un senso esiste, è questo.” (Franco Fortini, L’ospite ingrato, 1966). Si trovò a dovere giustificare pubblicamente le intenzioni celate dietro questo suo atteggiamento provocatorio e polemico, che era sostanzialmente la funzione politica a cui allude Mengaldo, di cui per altro Fortini non riteneva di dover chiedere venia:

“M’auguro naturalmente che alcune di quelle pagine possano essere intese anche per quel che dicono, lì, punto e basta. Ma più convinto sarei se tra i versi, gli pseudo versi e le prose, chi legge non avvertisse la coerenza di una persona, che non conta niente, ma almeno in traccia riconoscesse le contraddizioni d’una età e che per lui contassero.” (Franco Fortini, L’ospite ingrato, 1966).

Fortini, vale ricordarlo, da vero comunista quale mai era stato riconosciuto d’essere, intendeva che la nazione vivesse il presente in nome di una volontà riformatrice e progressista che non indietreggiasse dinanzi alle antinomie della ragione, e che, anzi, sapesse esporne le fratture e farsene carico. E dunque mostrava continuamente di avere profonda coscienza di questo tempo scisso, il quale, per diffuso disorientamento e disordine epocale, necessitava presupposti e procedimenti rigorosi, formalmente controllati. Per questa ragione, il tema della contraddizione emerge ed è, in ogni tipo di scrittura di Fortini, motivo intrinsecamente politico: non l’esito di una rinuncia all’impegno, ma la protesta di un intellettuale incessantemente focalizzato sulla storia e sulla realtà e su come riformarla.



[OXFORD, 12 settembre 2008]

COPYRIGHT: Erminia Passannanti©2008
http://www.ospiteingrato.org/Sezioni/Scrittura_Lettura/Poeti/Passannanti%2012-09-08.html

sabato 31 dicembre 2011

Scrittura saggistica, linguaggio lirico e traduzione poetica nell’opera di Franco Fortini

Paperback, 259 pages

AN INSIGHTFUL ANALYSES OF THE WORK OF FRANCO FORTINI.
(Ph.D. Thesis, University College London, 2004)

giovedì 29 dicembre 2011

NUMERO 3 DE LA LIBELLULA. ITALIANISTICA ONLINE


 

La Libellula n.3 Sommario

Il mestiere perduto. Sul silenzio degli intellettuali e la rimozione storica dell’idea di cultura come valore politico-sociale

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