LUCA
LENZINI / ERMINIA PASSANNANTI
SULLA
FUNZIONE FORTINI
(RIVISTA OSPITE INGRATO, SIENA)
La funzione Fortini nei poeti
contemporanei. Un'indagine
Qualche mese fa la redazione dell’Ospite Ingrato on line ha pensato di dedicare uno spazio di
riflessione alla poesia contemporanea. In particolare ci siamo concentrati sulla
possibilità, facilitata dal nuovo formato on line della rivista, di aprire un
dialogo con i poeti di oggi a partire da alcune questioni poste dall’opera di
Franco Fortini. Con questo obiettivo abbiamo progettato un’indagine a largo
raggio, la cui prima fase è costituita da interviste in base ad un questionario.
Gli oltre centocinquanta poeti a cui abbiamo pensato di proporre l’indagine
sono stati scelti tra quelli che hanno esordito non prima del 1973.
Il questionario è in due parti: la prima,
impostata sul modello dell’inchiesta, è finalizzata a raccogliere informazioni
che riguardano la formazione dei poeti e le condizioni materiali in cui si
trovano ad operare nella società contemporanea; la seconda, composta da cinque
domande aperte, intende rintracciare l’eventuale vitalità di alcune riflessioni
fortiniane. Le informazioni richieste nella prima parte riguardano le
condizioni economiche e professionali del poeta, i suoi rapporti con l’editoria
e con l’industria culturale. Nella seconda parte sono poste questioni che riguardano,
in sintesi: il rapporto tra poesia e realtà, le scelte formali, la traduzione e
la «funzione Fortini» nella poesia dell’ultimo Novecento.
Alla diversa e complementare natura delle
due parti del questionario corrisponderà un diverso e complementare trattamento
dei dati. Le singole risposte dell’inchiesta (prima parte) non saranno
pubblicate, ma confluiranno tutte in una rielaborazione complessiva e finale di
tipo statistico e rigorosamente anonimo. Le risposte alle domande della seconda
parte, se saremo autorizzati a farlo dagli autori, saranno invece pubblicate “firmate”
e a scaglioni sul sito dell’Ospite ingrato, in modo da renderle subito
accessibili e condivisibili, ordinate secondo un criterio generazionale. Sei pregato
pertanto di rispondere, in base alla tua disponibilità, entro il 30 aprile,
entro il 30 giugno o entro il 30 settembre 2008. Una fase successiva dell’indagine
prevede la rielaborazione critica delle risposte stimolate dalle riflessioni
fortiniane, che tenga conto dei dati dell’inchiesta.
ERMINIA
PASSANNANTI
LL1.
Nell’ultimo trentennio si sono verificati mutamenti economici, politici e
sociali di grossa rilevanza. Quali sono secondo te le trasformazioni decisive
nella realtà contemporanea? Che effetto hanno sul tuo lavoro?
EP1 Come
poetessa nasco nel passato: un passato fatto di poesie apprese e
interiorizzate, prima come cadenza e ritmo, che come contenuto – contenuto
lirico spesso dato didatticamente per scontato, come nel caso di Leopardi,
Carducci e Pascoli. Così, per tutte le scuole elementari – fase
importantissima, ritengo oggi come allora, per la formazione del futuro poeta (
se rispetto a questa universale vocazione accogliamo le teorie di Vico e
Wordsworth), ‘Leopardi-Carducci- Pascoli’, divinità una e trina, erano la
poesia italiana. Ti accorgevi solo al liceo che non erano un’unica ‘persona’, e
che il campione nazionale di ‘poeta’ era infatti costituito dal binomio
Cavalcanti-Dante.
Al tempo della
mia infanzia, le poesie si apprendevano a scuola, con il grembiulino addosso,
conformati ed uniformati al ‘nuovo’ ideale di alunno voluto dalla repubblica –
figlio/a di orfani/orfane di guerra, reduci e combattenti, sposatisi in ritardo
in pieno boom economico con l’ossessione della ricostruzione. E da nuovo alunno
vivevi la tua bella infanzia tra i muri di una scuola che si diceva riformata,
ma i cui schemi erano fondamentalmente desunti da quelli dell’epoca fascista in
cui tiranneggiava un vero ed unico modello: quello del concordato tra Stato e
Chiesa dei Patti Lateranensi.
Nasco dunque
come poetessa fuori da un’epoca in cui le poesie si imparavano a memoria, porte
da maestri moralmente irreprensibili (ovvero umili padri e madri di famiglia,
cresciuti in pieno fascismo, divenuti educatori e “social workers”), e si
ripetevano a casa, aiutati dai propri genitori – che nel mio caso erano appunto
entrambi insegnanti, i quali in realtà non aderivano affatto a questo falso
modello di scuola riformista, essendo entrambi convinti roussoniani, volti al (mio)
futuro.
Ed è così che
sono cresciuta al desiderio e alla consapevolezza della scrittura lirica come
fuga verso una realtà più libera sentendomi lacerata tra il frequentare una
scuola conservatrice e reazionaria, (che impiegava e retribuiva i miei
genitori) e una famiglia anticlericale e progressista, all’interno della quale
ero l’autorizzata ‘anarchica’.
La storia che
ha influenzato la mia (diciamo) ‘vocazione’ allo scrivere versi, non parte
tanto dal presente degli anni Sessanta, in cui nascevo, ma dal passato: sia
della guerra e del fascismo patito dai miei già vecchi genitori - l’una orfana
e l’altro ufficiale tenuto prigioniero in un campo di concentramento per due
anni dai nazisti – sia della tradizione letteraria dell’ottocento che si
insegnava prevalentemente a scuola, fino alle medie. Le rose dell’abisso,
insieme a paesaggio con serpente, di Fortini, mi hanno fatto comprendere quanto
abbia profondamente agito su di me, sul mio stile, sulle mie scelte di
scrittura, questa tradizione.
Ma la vocazione
poetica (che si genera dalla visione del mondo) non è la stessa cosa che la
pratica dello scrivere versi: la prima può rimanere inespressa, o
sottoespressa, date le condizioni della seconda. La mia vocazione è stata
sostenuta dalla prassi della traduzione letteraria e dagli studi universitari
di letterature straniere.
La mia prima
traduzione poetica è stata quella delle poesie delle sorelle Brontë – Emily
Charlotte e Anne – pubblicate da un editore minore ma di buona reputazione –
Ripostes. Le condizioni economiche di me come scrittrice e persona in cui
queste prime esperienze si collocavano non erano precarie, essendo studentessa
con una famiglia benestante alle spalle, ma non erano nemmeno chiaramente propizie,
dato che, dopo la laurea, sono rimasta a lungo sottoimpiegata come insegnante,
come prevedevo (temevo) accadesse.
La traduzione
delle Brontë mi procurò una borsa di studi, assegnatami dall’Istituto di Studi
Filosofici dietro indicazione di Franco Fortini, che scelse personalmente la
mia candidatura di borsista per il suo corso seminario “La traduzione poetica”,
e mi scelse – seppi in seguito – proprio in ragione della qualità formale di
quella mia prima traduzione. Così, per me vale e varrà sempre l’idea di Fortini
della traduzione poetica come esercitazione creativa, ma anche marziale, alla
ricerca di una propria “voce”.
Quanto al
contesto storico, la mia prima raccolta – Macchina - era pronta nel 1993, vinse un premio Nazionale nel
1995 (Premio Laura Nobile, di Siena) ma è potuta venire alla luce nella collana
curata da Romano Luperini per Manni, “La scrittura e la storia” solo nel 2000,
perché mi mancavano i fondi richiesti dall’editore per autofinanziare quella
prima pubblicazione. Aggiungo che malauguratamente, sebbene il premio Laura
Nobile consistesse proprio nella pubblicazione dell’opera, questa non fu mai
finanziata dall’ente promotore.
Una raccolta
successiva l’ho intitolata La realtà (2004) ed era un tributo in primis a
Questo Muro, di Fortini, e dunque ai miei ideali marxisti per i quali, date le
circostanze di vita, non ho potuto mai concretamente battermi. La ‘realtà’ di
questa raccolta è dialettica, in bilico tra procedimenti allegorici e simbolici
che parlano della nostra storia contemporanea, ma in modo radicalmente
trasversale, dunque, essenzialmente, dalla prospettiva dell’artista e
dell’intellettuale non integrato, dissidente, quale Fortini mi ha indicato
d’essere.
LL2. Molte
poesie degli ultimi decenni sono caratterizzate da una forte componente
metapoetica e autoriflessiva. L’atto della scrittura viene rappresentato già
all’interno del testo, e qui interrogato. Come valuti l’incidenza di questa
componente all’interno della poesia contemporanea? Pensi che sia cambiata
rispetto alla poesia di trenta anni fa? Che peso ha nella tua scrittura?
EP2. Quando mi
sono resa conto che la metascrittura iniziava a diventare tra gli scrittori una
vera moda, un vezzo, ovvero, una facile scappatoia (non solo una necessità
dell’artista nel suo rapportarsi al linguaggio e ai suoi segni) ho cercato di
evitare di indulgere in metascritture. Il re-writing e l’intertestualità sono strumenti indispensabili
sia al poeta sia al traduttore di poesia, ma bisogna agire un forte controllo
sugli allettamenti di queste componenti autoreferenziali, per non farsi
prendere in meccanismi consolatori e narcisistici. Nulla può dire di nuovo, può
cambiare, la poesia, ammoniva Fortini. Nessun poeta, nessun testo può vantare
un’assoluta originalità. Ma bisogna lottare per continuare a scrivere con la
consapevolezza di questa difficoltà. L’autoreferenzialità programmatica, come
discorso che un’arte fa su se stessa, comunque, la preferisco al cinema,
sebbene anche quella stia ormai scadendo in maniera tanto da non suscitare più
nessuna sorpresa anche nei migliori registi.
LL3. «Il
costituirsi di qualsiasi forma, linguistica o letteraria, comporta caratteri
severi di sforzo e progetto [...] In questo senso il valore di ogni forma è
anche etico-politico, comportando organizzazione, volontà, ascesi, selezione»
(Fortini, Sui confini della poesia, 1978, in Id., Nuovi Saggi Italiani,
Garzanti, 1987). Nel passo citato il processo di formalizzazione della poesia
sembra implicare per Fortini diverse istanze tutte compresenti: quella straniante
che tende ad immettere una forte distanza critica tra soggetto lirico, oggetto
poetico e sguardo del lettore; la mascherata conferma di un preciso assetto
sociale ed economico; una modalità di recupero della tradizione che diventa,
grazie alla specifica progettualità della poesia e alle scelte formalizzanti,
flebile ma al tempo stesso tenace anticipazione di un futuro. Come entra in
dialogo con queste riflessioni il tuo lavoro di poeta? Di quali significati
investi le tue operazioni di formalizzazione?
EP3. Io credo
che al numero tre del questionario abbia risposto con la mia mini-monografia su
Poesia delle Rose, dove Fortini affronta il complesso imponente di tutte queste
questioni, usando appunto le armi del ‘camouflage’ letterario, che sotto sotto
esamina appunto questo lento, profondo, maestoso processo di formalizzazione
della poesia. Preferisco citare direttamente dal Fortini di Verifica dei
Poteri: “(La poesia) assolve l’uffizio di essere un assillo ad un adempimento
reale, interumano, della propria immagine formale e a un tempo luogo di
consumazione anticipata (quindi mistificata come quella di una droga o di
un’ostia) d’una pienezza fulminea e immaginaria. (p.254)
LL4. La
traduzione «può essere aspirazione a ricevere da un’opera compiuta nel passato
quel sussidio alla completezza che l’operare nel presente, per definizione, non
ha.» (Fortini, Prefazione al Faust, 1980, in Id., Saggi ed epigrammi,
Mondadori, 2005). Ritieni valida l’idea di traduzione come tensione vitale nei
confronti di una tradizione? Qual è il tuo rapporto con la traduzione e con la
poesia contemporanea in lingua straniera?
EP4. Sono stata
e rimango una traduttrice di poesia in lingua inglese in Italiano: ho tradotto,
come dicevo, le Brontë, Sylvia Plath, Geoffrey Hill, Seamus Heaney, e curato
una antologia di poeti britannici, Gli uomini sono una beffa degli angeli. Dopo
essere stata borsista di Fortini, ho collaborato con lo scrittore tedesco
Sebald per tre anni, d’estate, al suo progetto “British Centre of Literary
Translation”.
Ho collaborato
con l’Arts Council del Galles e tradotto poeti gallesi importantissimi, come RS
Thomas. Ho fatto della traduzione poetica, come arte, genere, linguaggio,
l’argomento della mia tesi di dottorato allo University College di Londra
sull’opera di Franco Fortini. Non smetto di analizzare e riconsiderare i
contenuti del testo di Fortini che curai in quella sede, Realtà e paradosso
della traduzione poetica (1989) – opera inedita in cui Fortini esprimeva le sue
idee originali su questa disciplina con cui così intensamente ed intimamente
accostava, nella pratica e nella formulazione teorica, la traduzione di testi
altrui alla scrittura lirica di primo grado, la sua.
La traduzione
poetica è senza dubbio la disciplina cardine che per Fortini fu veicolo di un rapporto
unico, autentico e vibrante tra tradizione e presente. Non smetto di essere
influenzata dal Fortini poeta, dal Fortini saggista e dal Fortini traduttore,
come scrittore in cui questi tre linguaggi raggiungono una perfetta sinergia, e
così facendo, mi sento e sono sua convinta discepola. Personalmente tendo a
tradurre non solo i poeti che mi insegnano a scrivere ma la cui Weltanschauung
mi sembra di potere condividere. Tuttavia, nei casi più pericolosi, come in
quello dato dalla prossimità alla Plath, seguendo i consigli di Fortini in
Realtà e paradosso della traduzione poetica, cerco di rimanere vigile e di
operare una resistenza contro la mera gratificazione della forma. Ho provato a
tradurre i versi di Amelia Rosselli dall’inglese, ma a quello stadio, era lei
stessa ancora immersa in un work-in-process. Non amo tradurre Juvenilia.
Citerei un
significativo e noto brano dalla conversazione tra Fortini e Loi, in Franchi
dialoghi (pp.29-30) : “Leggere una poesia, anche fra sé e sé o ad alta voce, è
eseguirla, interpretarla e quindi anche modificarla, ricrearla. In una certa
misura criticarla. Quando si dice che un testo poetico non è interpretabile
solo a partire da se stesso si allude alla sua situazione nella cultura e nella
storia. Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza
o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di
risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di
tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio.” (pp.29-30)
LL5. Mengaldo
ha definito la “funzione Fortini” come «integrale politicità della poesia»
(Divagazione in forma di lettera, in Per Franco Fortini, Liviana, 1980). La
politicità della poesia consisterebbe sia nella scelta di rappresentare
determinati contenuti politici e sociali, sia nell’uso non conciliante della
forma. Riconosci una “funzione Fortini” nella poesia contemporanea? In che modo
si rapporta al tuo lavoro?
EP5. Vedo
sopravvivere la funzione-Fortini in poeti noti e meno noti, come Biagio
Cepollaro o Enrico Cerquiglini, molto impegnati e sensibili alla crisi del
presente, con l’incombente minaccia dell’analfabetismo culturale e storico che
investe ampie fasce della popolazione fatta retrocedere ad un centinaio di anni
fa per le bieche manovre populiste delle gerarchie al potere. Questa
funzione-Fortini come poesia della vera dissidenza, senza bandiera,
patriottismi degeneri e dirigenti, ho cercato di farla rivivere in me curando
due edizioni dell’antologia Poesia del Dissenso. Fortini, si sa, nelle sue
provocazioni, verbali e scritte, porte in forma poetica o discorsiva,
saggistica, tendeva a forme di radicalismo che non di rado scatenavano
conflitti ideologici, animosità ed inimicizie con i suoi interlocutori, come
accadde nella nota polemica con Pier Paolo Pasolini. Spesso ferito dagli esiti
i tali scontri, chiedeva ai suoi versi di rendere giustizia al loro fine
ultimo, che era quello di conferire senso alle contraddizioni, stabilire un
dialogo: “A loro chiedo aiuto perché siano visibili/ contraddizioni e identità
fra noi/ Se un senso esiste, è questo.” (Franco Fortini, L’ospite ingrato,
1966). Si trovò a dovere giustificare pubblicamente le intenzioni celate dietro
questo suo atteggiamento provocatorio e polemico, che era sostanzialmente la
funzione politica a cui allude Mengaldo, di cui per altro Fortini non riteneva
di dover chiedere venia:
“M’auguro
naturalmente che alcune di quelle pagine possano essere intese anche per quel
che dicono, lì, punto e basta. Ma più convinto sarei se tra i versi, gli pseudo
versi e le prose, chi legge non avvertisse la coerenza di una persona, che non
conta niente, ma almeno in traccia riconoscesse le contraddizioni d’una età e
che per lui contassero.” (Franco Fortini, L’ospite ingrato, 1966).
Fortini, vale
ricordarlo, da vero comunista quale mai era stato riconosciuto d’essere,
intendeva che la nazione vivesse il presente in nome di una volontà
riformatrice e progressista che non indietreggiasse dinanzi alle antinomie
della ragione, e che, anzi, sapesse esporne le fratture e farsene carico. E
dunque mostrava continuamente di avere profonda coscienza di questo tempo
scisso, il quale, per diffuso disorientamento e disordine epocale, necessitava
presupposti e procedimenti rigorosi, formalmente controllati. Per questa
ragione, il tema della contraddizione emerge ed è, in ogni tipo di scrittura di
Fortini, motivo intrinsecamente politico: non l’esito di una rinuncia
all’impegno, ma la protesta di un intellettuale incessantemente focalizzato
sulla storia e sulla realtà e su come riformarla.
[OXFORD, 12
settembre 2008]
COPYRIGHT:
Erminia Passannanti©2008
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